La mela di Newton, la pesca di Esselunga
Guarda un po' se, nell’era del buonismo-a-prescindere, deve essere uno spot a darci lezioni di vita reale e buonsenso, da ricercarsi, quest’ultimo, a piacimento tra gli unici due punti di vista colti dal pubblico: la bambina e i due genitori. Già perché il terzo è passato in secondo piano anche se rappresenta il solo motivo per il quale è stata data l’ennesima opportunità all’internet di spaccarsi in due e riuscire, come sempre nelle questioni d’opinione (praticamente l’intera nostra esistenza), a dare il peggio di sé: l’Esselunga, catena di supermercati storica fondata alla fine degli anni 50 dai fratelli Caprotti e da Mr.Rockfeller, desideroso di conquistare il mercato italiano col modello Supermarket a stelle e strisce, che, dopo aver dato l’impronta, lascerà, dietro cospicuo compenso, la proprietà e la gestione dell’azienda ai due imprenditori italiani.
Ora, in particolare il signor Bernardo Caprotti, che ha lasciato questo mondo ormai 7 anni fa, era avvezzo al realismo più che all’ipocrita illusione esistesse una nuvoletta rosa sopra la quale vivere tutti in un abbraccio cosmico, convinzione che maturò a causa dell’ostracismo subito dalle Coop autoctone e dal loro bagaglio di fiero socialismo reale, buono soltanto per gli altri ma non per i vertici ammanicati con le amministrazioni locali della Romagna, il cuore della sinistra di potere, che per aver «sistematicamente ostacolato i tentativi effettuati dalla concorrente Esselunga di avviare punti vendita di medie e grandi dimensioni nella Provincia di Modena» venne, nel 2012, sanzionata dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato al pagamento di una piccola ammenda di 4.6 milioni di euro. Questo cenno storico ci aiuta a capire le ragioni di un approccio al marketing così vero da parte di un brand che non ci parla per stereotipi, frasi fatte e non ci mena per il naso: le famiglie con genitori separati esistono, fanno la spesa anche loro e, soprattutto, mamma e papà non hanno alcuna intenzione di ritornare a fare quello che insieme probabilmente gli riusciva male.
Obiettivo centrato: l’importate è che se ne parli.
Always Coca-cola
Dici marketing e non puoi non pensare alla sua incarnazione per antonomasia: Coca-Cola!
Dalla sua nascita nel 1886, per mano del farmacista John Stith Pemberton (caduto in disgrazia poco dopo!), Atlanta, Georgia, e la sua definitiva consacrazione nel tempio della finanza mondiale (è del 1919 la quotazione a Wall Street dell’azienda The Coca-cola Company, creata da Asa Candler che comprò i diritti del sidro per due spicci ($2300,00) e che, grazie ai profitti generati, diventerà fondatore della Central bank confluita poi nella Bank of America) il Brand Coca cola cavalca l’immaginario collettivo della famiglia, dell’amicizia e, in generale, dei valori di rispetto e fratellanza per creare il suo impero commerciale. Il logo rosso e bianco rimpalla tra le nostre meningi con la stessa totalizzante frequenza di icone pop come Topolino, Michael Jackson e il Natale, di cui dall’84 cura ufficialmente lo storytelling e l’aspetto grafico (si scherza, eh!), e quale mossa mettere in campo, in questo presente e dopo più di un secolo di brillantissime idee, per restare saldamente al vertice della classifica dei brand più amati di sempre?
Chiedere all’Ai di generare gusto e aspetto della bevanda del prossimo futuro.
Nasce così Coca-cola Y3000, disponibile per un periodo limitato negli U.S.A. e in Canada, al fine, si suppone, di testarne l’appeal con i consumatori e capire se questi siano pronti, o meno, a entrare ufficialmente nel domani-domani, perché appare evidente che Coca-cola lo sia già da tempo.
Infatti chiede a una macchina quello che le nostre papille gustative dovrebbero trovare piacevole.
“Il sapore del futuro”, recita un articolo trovato in rete.
Ci sono individui che riescono a immaginarlo riscrivendo il presente.
Coca-cola lo fa dal lontano 1892, perché dietro al marchio e alle sue strategie ci sono ancora uomini in carne e ossa.
Have a break, have a…
E se ti dicessi “have a break” a cosa penseresti? Magari all’erba di Wimbledon, al 1980, a Borg e McEnroe, ma solo se (in un mondo giusto, o più giusto, vedi tu), sei prossimo alla pensione. Categoria anagrafica i cui appartenenti, comunque, rientrano appieno nella cerchia di chi dovrebbe aver già capito di cosa stiamo parlando. Diciamo subito che geograficamente la più prestigiosa e antica tappa dello slam tennistico ci porta nel posto giusto, il Regno Unito, dove nel 1911 la Rowntree’s commercializzava una scatola di cioccolatini, dalla livrea rossa, che avrebbe subito una trasformazione rivoluzionaria per il mercato degli snack e per come l’imaginario collettivo ha iniziato, da quel momento, a percepirli. “Have a break, have a KitKat”, esclamiamo dal 1957, da quando cioè Donald Gillie, pubblicitario, partorì lo slogan che non è mai stato cambiato negli ultimi 66 anni e che rappresenta la voce ufficiale e riconoscibile della barretta di cioccolato più famosa del globo: KitKat, appunto. Come capita sempre, anche questa è la storia di uomini il cui acume e profondità di visione hanno reso un prodotto, in questo caso alimentare (esattamente come la Coca-cola di cui sopra), un’icona: un dipendente dell’azienda dolciaria britannica, le cui generalità sono state inghiottite dal respiro profondo della storia, avrebbe proposto ai vertici (la filiera proprietario-lavoratore probabilmente all’epoca era più corta) la creazione di uno snack spezza fame pratico da portare nello zaino, et voilà: dal 1935 il KitKat assume la sua forma universalmente riconoscibile ancora oggi. Grazie a Gillie, e al suo payoff, la strategia di marketing gioca sul doppio senso di break-spezzare e break-pausa, regalando al fruitore una primissima esperienza sensoriale, senza nemmeno addentare la barretta: associare il crack del wafer, ricoperto di cioccolato, al rompere il ritmo produttivo del lavoro per concedersi una pausa.
L’impostazione commerciale, dall’aspetto dello snack allo slogan utilizzato, prossima alle 90 candeline è ancora oggi il motore che rende il brand KitKat un marchio di successo.
Quando si dice “le buone idee"…