Le storie dietro a un Logo (Parte Prima)

“Il nostro stare al mondo è multi-sensoriale.”

Quando guardiamo qualcosa, qualsiasi cosa, riconosciamo in essa elementi legati alla nostra esperienza.

“Sembrerebbe che oggi tutto il mondo sia una questione visiva.”

“Le cose osservate hanno sempre un significato perché glie lo diamo noi guardandole, altrimenti non sapremo che farcene del mondo.”

“Nessuno potrà garantirci che il fruitore vedrà le cose esattamente come sono state progettate.”

“Il visual design progetta anzitutto rappresentazioni.”

“La rappresentazione finisce per abitare i nostri pensieri.”

“Il brand non è la merce ma la sua idea psicologica.”

Ora possiamo parlare di logo.

Le premesse virgolettate qui sopra sono interamente mutuate da “Critica portatile al visual design”, di Riccardo Falcinelli, il periodo libero è una personale riflessione maturata dalla lettura di questo testo.

Storie curiose dietro alla genesi di loghi famosi, sarebbe il tema del blog.

Salvo perdere l’innocenza e constatare che, probabilmente, il caso cinematografico e una bella trama a lieto fine in questo campo c’entrano poco.

Come quale campo?

Questo che ci circonda, nel quale siamo immersi come feti nel liquido amniotico o campioni in barattoli di formalina.

Il mondo sembrerebbe diventato una questione visiva, è un’affermazione da declamare abbandonando qualsiasi cautela e coniugando l’ausiliare in un deciso indicativo presente.

Quando è successo?

Nell’istante esatto in cui abbiamo aperto gli occhi e siamo stati costretti a costruire una corrispondenza tra la nostra idea del mondo e la sua rappresentazione fisica.

L’economia di scala ci ha poi persuaso a concedere al visual design la dignità di codice in grado di decifrare il reale, quello che viviamo in questo 2023 agli sgoccioli, perché in effetti esso costituisce le fondamenta sul quale è eretto.

Il visual design progetta rappresentazioni che finiscono per abitare i nostri pensieri, ma chi ci dice che quelle non siano già stoccate negli archivi della nostra esperienza?

Se il brand non è la merce ma la sua idea psicologica, è lì che i produttori di rappresentazioni andranno a prendere il materiale per le loro architetture: ricordo l’uscita del primo iPod, o comunque la prima volta in cui mi è capitato di vederne uno, e la sensazione fisica (proprio così, mi sono sentito pervaso da un tepore rassicurante) è stata di conforto nel riconoscere qualcosa che mi trasferiva sicurezza perché legato alla tradizione… quale?

Nessuna.

Non era mai esistito nulla di simile prima di allora, meglio: non si era mai visto un supporto elettronico, dalla foggia di parallelepipedo, nel quale immagazzinare tutta la musica disseminata per casa in preistorici vinili, nastri o cd.

Allora?

Cosa riusciva a farmi dire “ah sì, l’iPod…” come se lo avessi sempre avuto in tasca?

Le sue linee smussate, la sua estetica simile a quella di un device futuristico preso da un fumetto di fantascienza anni 50’, la somiglianza col monolito nero di “2001 Odissea nello spazio”? Probabilmente tutte queste cose insieme e molte altre ancora, perché i tre elencati sono soltanto i motivi che hanno indotto in me quell’impressione che ha però investito tutto il pianeta nell’ottobre del 2001 (anche la scelta della data, sarà stata accidentale?).

Quindi?

Quindi il caso c’entra poco, cioè: fermo restando che è essenziale l’intuizione alla base del progetto, l’idea o l’ispirazione che la si voglia chiamare, nel visual design tutto rimanda a una serialità replicabile su scala, a una progettazione, appunto, pervasiva e fondante.

Tutto questo processo sta ovviamente dietro alla creazione della particella del codice che, più di ogni altra, ci fa cadere nell’equivoco di considerarla il codice stesso: il logo.

Un distinguo è d’obbligo: il marchio è la fusione tra un simbolo e il “lettering” (l’italica scritta), mentre il logo è un marchio fatto di sole lettere.

Puntualizzazione dirimente?

Forse no, per chi ne subisce l’infatuazione, decisamente sì per chi è chiamato a partorire marchio o logo: associare al nome un simbolo che abbia la capacità di imprimere nell’immaginario del consumatore il prodotto e tutto quello che questo contenitore riempie, non è impresa semplice, come ovviamente non lo è lavorare sulla nuda grammatica, ma nel primo caso si tratta di introdurre un elemento in più.

Questo elemento potrebbe potenzialmente sublimare nella sua immagine l’intera struttura aziendale e divenire icona e unico volto del brand.

Quando vediamo una mela pensiamo alla Apple Inc, punto.

Prodigio?

Certamente, ma opera di un grafico: Rob Janoff.

Perché proprio una mela?

La società si è sempre chiamata Apple Computer (in onore della mela di Newton), qualsiasi altro frutto sarebbe stato fuori luogo, a rigor di logica, esattamente come usare un’immagine che non fosse una mela.

Sì ok, ma il morso è perché Steve ne andava pazzo?

Nient’affatto: Janoff rivela che la motivazione fu puramente grafico-visiva: il morso permetteva di distinguerla da una ciliegia.

Più evocativa è di sicuro la questione cromatica: il primo simbolo era disegnato con 6 bande colorate, per umanizzare l’azienda, e a significare che la Apple produceva personal computer con schermi a colori (Apple II), riprendendo il concept visivo del simbolo IBM (anch’esso fatto di bande ma soltanto blu a rimandare l’estetica degli schermi di prima generazione, sviluppati appunto su un solo colore) e dimostrando di aver superato quella tecnologia.

Il visual design che prende ispirazione dal visual design e si migliora.

 

CONTINUA...